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Il cristianesimo antico ha condannato gli spettacoli, senza riserve e senza eccezioni. Perché nei confronti di una delle dimensioni più importanti della vita civile tardoantica la chiesa non adottò un atteggiamento di valutazione critica, di scelta e di risignificazione in senso cristiano, come avvenne in altri campi, ma predicò con tenacia un'esclusione ed un rifiuto difficili da mantenere e per molti aspetti impopolari anche fra i cristiani? Le spiegazioni tradizionali che vengono date di questo fenomeno, spesso sottovalutato dagli storici, fanno leva sull'immoralità e sull'idolatria dei contenuti degli spettacoli ma, pur contenendo certamente una parte di verità, rischiano di non coglierne le ragioni più profonde.Attraverso una serrata indagine condotta su un'ampia mole di testi della cultura pagana e cristiana, da Platone ad Agostino e Giovanni Crisostomo, questo libro propone un'interpretazione nuova del problema e fa riemergere dall'antichità cristiana i tratti di un affascinante sistema di pensiero, capace di riflettere con grande profondità sulla struttura della rappresentazione, sull'ambiguo rapporto tra verità e finzione che in essa si instaura, sulla relazione tra spettatore e attore, ma anche sulla valenza metaforica del teatro interiore e di quello cosmico. Un pensiero che, in definitiva, ha qualcosa da dire sulla stessa identità cristiana e sulla natura essenzialmente antispettacolare del dramma di cui Dio e l'uomo sono protagonisti nell'evento della salvezza.